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Il tribunale di Roma ha confermato le condanne per le minacce a Saviano: «Mi hanno rubato la vita»

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    Redazione La Capitale
  • 14 lug
  • Tempo di lettura: 2 min

La sentenza, emessa nel pomeriggio dalla Prima sezione della Corte, ribadisce quanto deciso in primo grado nel 2021

Saviano abbraccia l’avvocato Nobile
Saviano abbraccia l’avvocato Nobile

La Corte d’Appello di Roma ha confermato le condanne per le minacce rivolte a Roberto Saviano durante il processo Spartacus, uno dei più importanti procedimenti contro la camorra casertana.


La sentenza, emessa nel pomeriggio dalla Prima sezione della Corte, ribadisce quanto deciso in primo grado nel 2021: un anno e sei mesi di reclusione per Francesco Bidognetti, esponente del clan dei Casalesi, e un anno e due mesi per l’avvocato Michele Santonastaso, accusati di minacce aggravate dal metodo mafioso.

Il contesto: le minacce in aula nel 2008


Le minacce risalgono al 2008, quando, durante un’udienza del processo Spartacus, Santonastaso lesse una dichiarazione firmata da Bidognetti e da un altro boss, Antonio Iovine. In quel documento si facevano esplicitamente i nomi di Roberto Saviano e della giornalista Rosaria Capacchione, accusandoli - senza alcuna base giuridica - di avere influenzato l’opinione pubblica e condizionato il processo.


Si trattò di un gesto inedito: mai prima di allora, in un’aula di tribunale, esponenti della criminalità organizzata avevano indicato pubblicamente dei giornalisti come responsabili morali delle proprie condanne.


Saviano: «La camorra ha paura dell’informazione»

Dopo la lettura della sentenza, Saviano ha abbracciato il suo avvocato Antonio Nobile, visibilmente emozionato, tra gli applausi del pubblico in aula.


«Mi hanno rubato la vita - ha commentato Saviano -. Sedici anni di processo non sono una vittoria, ma oggi è stato riconosciuto un principio fondamentale: la camorra teme chi racconta il suo potere».


Saviano ha poi aggiunto: «Abbiamo la prova ufficiale che dei boss, con i loro legali, firmarono un appello in cui indicavano il giornalismo come una minaccia. Non attaccarono la politica, ma chi faceva informazione. E questo, in un’aula di giustizia, non era mai successo prima».


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