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«Dante è un fuoriclasse. Come Totti. Anzi, meglio». Cosa significa leggere Dante a Tor Bella Monaca: intervista a Emiliano Sbaraglia

  • Edoardo Iacolucci
  • 11 giu
  • Tempo di lettura: 5 min

Intervista allo scrittore professore Emiliano Sbaraglia sul suo romanzo che ripercorre le esperienze da insegnante in una scuola media di Tor Bella Monaca, celebre periferia di Roma: «Dante è un fuoriclasse. Come Totti. Anzi, meglio»

A sinistra il libro, a destra Emiliano Sbaraglia. Sullo sfondo Tor Bella Monaca
A sinistra il libro, a destra Emiliano Sbaraglia. Sullo sfondo Tor Bella Monaca

In un quartiere come Tor Bella Monaca, a Roma, spesso protagonista delle cronache per ragioni tutt’altro che culturali, può succedere qualcosa di inaspettato: che un professore decida di leggere Dante con una classe di terza media. Da questa esperienza nasce «Leggere Dante a Tor Bella Monaca» scritto da Emiliano Sbaraglia, docente, scrittore e membro fondatore dell’associazione Piccoli Maestri. Pubblicato da Edizioni E/O, per cui lo stesso Sbaraglia da giovane ha fatto lo standista proprio per la E/O. «Io ho iniziato vendendo i libri di E/O come standista. Figurati la soddisfazione adesso di aver scritto per loro un libro facendo un percorso piuttosto lungo, durato 25 anni».

Un libro appassionato e fuori dagli schemi. Non un racconto «buonista», ma il diario professionale e umano di chi ha scelto di insegnare senza retorica, portando la letteratura dove meno la si aspetta. Lo abbiamo intervistato per capire cosa vuol dire, davvero, insegnare in periferia, e cosa può fare Dante, la scuola, e i professori, per chi l’inferno lo conosce già.


Il libro nasce dall’esperienza concreta di un insegnante in una scuola considerata “difficile”. Ma a colpire è proprio il rifiuto della retorica del “prof missionario”. È così?

Sì, è una distinzione fondamentale. Quella figura del professore che lavora nella periferia per “vocazione” o per “salvare” gli altri non mi appartiene. Nel libro questo è esplicito: siamo professionisti, non missionari. Non andiamo a fare del bene, andiamo a fare il nostro lavoro. Poi certo, in una scuola come quella di Tor Bella Monaca il lavoro richiede consapevolezza, adattamento, anche una dose di creatività. Ma resta il nostro mestiere. Chi ci rimane nel tempo, lo fa perché ha scelto di affrontare quella complessità con strumenti professionali, non con l’ideologia dell’eroe solitario.


Come ci è arrivato a quella scuola? Era una scelta?

Sì, lo era. Prima di diventare insegnante ci andavo come direttore della radio web di Save the Children. Una volta al mese, per due anni, registravo con i ragazzi delle trasmissioni radiofoniche. Quando poi ho vinto il concorso, ho deciso di tornare lì, questa volta come docente. Sapevo dove andavo, ma mi ci è voluto tempo per capire come dare una mano concreta. È una scuola diversa, ma “diversa” non vuol dire “emergenza”. Ci sono problemi, sì, ma anche tante cose che funzionano. Negli ultimi anni, grazie anche alla presenza stabile di una dirigente molto in gamba, la scuola è migliorata. Le persone fanno la differenza.


La periferia mediatica è sempre e solo cronaca nera. Il libro invece cerca altre storie. Era una scelta consapevole?

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Emiliano Sbaraglia con il suo libro in mano

Assolutamente. Ho rifiutato per anni di scrivere questo libro, anche perché non volevo contribuire a quella narrazione parziale che mette Tor Bella Monaca in copertina solo per vendere. Quando ho deciso di scriverlo, mi sono imposto di raccontare anche quello che nessuno racconta: le buone storie, le persone che resistono, che cercano strade diverse. Io ad esempio M. (personaggio del romanzo) lo conosco bene. È un bravo ragazzo, ma è nato e cresciuto in una strada che ti spinge in una direzione unica. Certo, ha delle responsabilità. Ma quante responsabilità può avere un 14enne? E poi lui ci ha provato, ha frequentato, è stato bocciato, è tornato. Il punto è che quando finisce la scuola, io torno a casa mia, lontano da quella realtà. Lui no. Lui resta lì, di notte, di giorno, sempre.


Da qui, il senso di portare Dante in quel contesto.

Sì, senso sta tutto nella parola “opportunità”. Sapevo che molti di quei ragazzi non avrebbero mai incontrato Dante in un percorso di studi tradizionale. Allora ho pensato: o glielo faccio conoscere ora, o rischiamo che non lo conoscano mai. E da lì ho iniziato a cercare i punti di contatto. Guelfi e ghibellini diventano romanisti e laziali, i dissing medievali tra Cavalcanti e Cino da Pistoia come quelli tra rapper di oggi. È un modo per entrare nel loro linguaggio, e farli entrare nel mio. E funziona, perché poi magari uno ti dice: “Professò, avevi ragione tu. ‘Sto Dante è mejo de Totti.


Un aspetto del suo approccio è anche ad esempio l’uso del rap e dei riferimenti musicali per creare connessioni con i ragazzi. Come funziona questo “ponte”?

È fondamentale. Se vuoi davvero coinvolgerli, devi entrare nel loro linguaggio, nella loro realtà. Io non vado in classe a dire che il rap fa schifo, sarebbe un suicidio. Gli spiego che non tutti i rapper dicono le stesse cose, che c’è chi lancia messaggi sociali forti, e che l’hip hop nasce da contesti marginali, come il Bronx. Da lì li porti a capire che anche Dante, in fondo, è stato un poeta che parlava del proprio tempo con parole forti.

Dante è un rapper

Sì (ride, ndr). Ha ritmo, attitudine, messaggio. Se li prendi da lì, ti ascoltano. Se parti dal manuale e non tocchi la loro realtà, ti ignorano. E fanno bene.


La parte della gita a Firenze è forse la più emozionante del libro. Lo è anche per lei?

Sì, quella parte è importante perché dà il senso di un cambio di prospettiva. È un episodio costruito a partire da esperienze vere: un’uscita a Firenze fatta anni fa con un liceo e un’altra al Salone del Libro di Torino con i ragazzi della scuola di Tor Bella. Il punto non è la destinazione, ma il movimento. Molti studenti non erano mai usciti dal quartiere. Alcuni lo fanno solo per andare in carcere a trovare un parente, o in ospedale. Ma prendere un treno per vedere Piazza della Signoria o un quadro del Rinascimento cambia tutto. È anche questo il lavoro educativo: far scoprire che esiste un “fuori” possibile, non solo un futuro a senso unico verso l’inferno.


Cosa potrebbe fare la politica per queste realtà? C’è una presenza reale delle istituzioni?

Poca, e spesso a intermittenza. Gli eventi spot non bastano. Servono interventi quotidiani, strutturali. Io vedo tante associazioni, tante persone che lavorano bene, ma lo fanno quasi sempre a prescindere dalla politica, non grazie a essa. E invece lo Stato dovrebbe esserci, nella quotidianità. Prendersi cura, costruire percorsi. Per esempio, il dibattito sullo ius scholae potrebbe essere un punto di partenza concreto. Meno paura, più strumenti.


Ha detto di aver lasciato Tor Bella dopo undici anni. Cosa l’ha spinta a farlo? E ci tornerebbe?

Motivi di salute, soprattutto. A un certo punto, il medico, mia moglie e mia madre mi hanno convinto. Ora insegno a 300 metri da casa. Quando ho fatto domanda di trasferimento, ho messo solo quella scuola. Ho detto: se mi prendono qui, bene, altrimenti resto. Però sì, ogni volta che mi chiamano a Tor Bella, torno volentieri. E non nego che, un giorno, potrei tornarci davvero. Tipo Ranieri alla Roma. Una seconda volta, con più esperienza e forse con nuove energie.


Il libro è stato proposto al Premio Strega. Com’è andata?

L’ingresso negli 80 titoli è stato già un riconoscimento. Se poi fossimo entrati nella dozzina, il libro sarebbe stato incluso automaticamente nello Strega Giovani, dove votano insegnanti e studenti. Lì avrebbe avuto un senso profondo. Non è andata così, ma va bene. Il libro ha fatto il suo percorso, ed è già un riconoscimento essere stati in quella lista.


Un’ultima curiosità. Ma allora, chi vince tra Totti e Dante?

Non è una sfida. Ma se proprio dobbiamo dirlo… Dante è un fuoriclasse. Un numero 10. Come Totti. Anzi, meglio. E il bello è che i ragazzi, se glielo mostri nel modo giusto, lo capiscono.

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