Dalle lotte dei romani a quelle personali: intervista ad Alessandro Rossellini per gli 80 anni di «Roma città aperta»
- Edoardo Iacolucci
- 29 giu
- Tempo di lettura: 4 min
Per gli 80 anni di «Roma città aperta» abbiamo parlato con Alessandro Rossellini, nipote del regista Roberto tra i più celebri al mondo. Un viaggio intimo tra cinema, famiglia e rinascita

Nel 2025 ricorrono gli 80 anni di Roma città aperta, capolavoro del neorealismo italiano e simbolo della rinascita culturale e morale del Paese nel dopoguerra. Diretto da Roberto Rossellini e proiettato per la prima volta il 24 settembre 1945 al Teatro Quirino di Roma, il film ha segnato una svolta nella storia del cinema mondiale: girato in gran parte con attori non professionisti e in esterni, ha raccontato la resistenza romana e la sofferenza collettiva con uno stile crudo e profondamente umano. Un film che ha influenzato generazioni di registi, da Federico Fellini a Martin Scorsese, e che oggi continua a parlare con la sua voce limpida e coraggiosa.
In questo anno di celebrazioni - con il progetto «Tornerà la primavera», organizzato e promosso da Onni Srl in collaborazione con la famiglia Rossellini - abbiamo parlato Alessandro Rossellini, nipote del celebre regista. Da fotografo a regista, Alessandro ha saputo - con delicatezza e forza - confrontarsi con la complessa eredità del suo cognome. Dopo un percorso personale profondo, ha trovato una sua voce autoriale attraverso due intimi documentari: The Rossellinis e Viva Ingrid!.
Nella conversazione si sono affrontati più temi: il peso e la libertà di chiamarsi Rossellini, il valore eterno di Roma città aperta, l'identità, il cinema, la resistenza e il riscatto.
Crescere nella famiglia Rossellini deve essere stato qualcosa di unico. Come ha vissuto questa eredità?
Il cognome Rossellini è stato per me sia una benedizione che una trappola. Ci sono stati vantaggi indiscutibili: ho avuto accesso diretto al mondo del cinema, ai grandi produttori, attori e distributori. Un riconoscimento immediato, per il solo fatto di portare quel nome: Quello sicuramente è stato un privilegio...
Ma c'è un però...
Però, si. Ho avuto il problema di non mi sentivo all’altezza. Sentivo addosso uno sguardo carico di aspettative, e io non capivo come rispondere. Mi confrontavo con una figura come mio nonno, a cui si riconosceva la nascita del neorealismo... Poi anche una vita privata molto particolare, un uomo che è stato compagno di dive italiane e internazionali, premi Oscar, insomma... io mi sentivo sfigatello ovviamente.
Inizia così un duro viaggio interiore
Sono dovuto passare attraverso un po' di anni di tossicodipendenza, di psicoterapia, di gruppi di alcolisti anonimi e mi sono ricreato una identità più comoda e un po' più distaccata e dando più valore al mio nome, “Alessandro”, e riducendo il peso simbolico del cognome. Poi la vita è un po' cambiata.
Arriva quindi il tuo film The Rossellinis (2020) dove decidi di incontrare tutti i componenti della famiglia per capire se anche loro siano affetti da una malattia che definisci come “rossellinite" e scoprire come vivano il peso di un nome così famoso. Sì, molto. Il film The Rossellinis (si può vedere gratuitamente su Rai play, ndr) nasce proprio da questo bisogno di raccontare e fare pace con questa eredità. È stato catartico. Trattava proprio di questa mia difficoltà nell'essere parte di una famiglia così.
Com’è stato realizzare un film così personale?
È stato molto faticoso. Dovevo affrontare temi dolorosi per me e per la mia famiglia. Ma anche liberatorio. Anche se ha avuto la sfortuna di uscire proprio il giorno in cui hanno chiuso le sale, il 26 ottobre 2020, il film è andato bene. E mi ha dato più sicurezza. Mi ha fatto anche rendere conto che potevo fare quel tipo di lavoro.
E la famiglia come ha reagito?
Non benissimo, all’inizio. In particolare il ramo femminile americano ha faticato a digerirlo. Ma poi hanno capito: siamo una famiglia abbastanza unita, alla fine hanno accettato che quella fosse la mia visione.
Parliamo quindi di cinema. Cosa rappresenta per lei Roma città aperta?
È un film fondamentale. All’epoca fu contestato in Italia: perpetrava qualcosa di cui la gente si voleva distaccare, c'è una famosa frase attribuita da Andreotti - «i panni sporchi si lavano in famiglia» -, ma fu un enorme successo e visto per quel che era: come un film che ha il coraggio di mostrare la sofferenza del popolo, di chi aveva più difficoltà a mangiare e anche del grande coraggio della resistenza come momento topico del cambiamento. I romani hanno lottato per non essere affossati dal punto di vista umano.
Crede che oggi se ne comprenda ancora l’importanza?
Purtroppo no del tutto. Oggi, paradossalmente, essere antifascisti viene visto come qualcosa di riprorevole. Ma io mi definisco completamente antifascista, perché mio nonno mi ha spiegato cos'è il nazifascismo, anche grazie a Roma Città Aperta. È fondamentale avere dei film che raccontino la storia d'Italia e avere dei film che ci mettono di fronte alla resistenza come qualcosa che fa parte del nostro Dna storico e qualche cosa che forse dovremmo prendere in considerazione altrettanto ancora oggi.
Qual è il cinema che ama di più oggi? Ha dei registi di riferimento?
Ammiro tantissimi registi, ma non mi sento di fare nomi. Tanto cinema italiano che si rifà al cinema realista: il realismo econdo me è fondante per il cinema italiano. Ma lo ritrovo anche in tanti grandi registi sudamericani, europei, qualche bravo regista anche negli Stati Uniti, nel mondo indipendente, Ma non è l'unica cosa che amo. A me piace il bel cinema in generale.










